Tra poche settimane riprenderanno i corsi universitari. Abbiamo chiuso il secondo semestre con il tema del caro-affitti e con studenti fuori sede accampati davanti ai rettorati di numerose grandi università. La stampa si è occupata a lungo del problema legandolo anche a quello degli abbandoni, che ha visto un record del 7.4 % per l’anno 2021-2022. I dati provvisori del 2 2-23 mostrano una lieve inversione di tendenza con un aumento del 2.2% rispetto al 21-22. Il che è un buon segno, ma che non sposta il fatto che in Italia quasi il 20% dei giovani tra 15 e 19 anni non studia e non lavora. Il dato dell’Italia, insieme a quello della Romania è il peggiore di tutta l’unione europea. Se poi si considera che il 42% dei giovani europei tra 25 e 34 anni è laureato mentre per l’Italia si arriva al 29.2%, il quadro è fosco.
Abbandoni e basso numero di giovani che si iscrivono all’università hanno cause diverse e profonde. La scarsa capacità di attrazione dell’università italiana non può essere spiegata solo dai costi dello studio (alloggio certo, ma anche spostamenti, tasse universitarie, spese vive ecc.). Vero è che il costo dell’istruzione universitaria in Italia è, stando ai dati OCSE, cresciuto notevolmente portandoci verso i valori alti, ma è anche vero che tutte le università hanno piani di riduzione delle tasse universitarie in funzione del reddito.
Partiamo dalla domanda ovvia. Perché “andare all’università”?
Fino a qualche anno fa, la risposta immediata sarebbe stata una di due tipi.
Vado all’università perché “è ovvio che lo faccia”. Perché la mia famiglia, il mio ambiente, i miei amici sono laureati o stanno studiando, e la laurea servirà a mantenere, o migliorare, il mio status attuale.
Oppure, vado all’università perché “con la laurea starò meglio”. Meglio rispetto alla condizione lavorativa dei miei genitori e parenti, meglio rispetto alla mia attuale collocazione sociale e rispetto alla possibilità di soddisfare i miei desideri e/o di raggiungere i miei obiettivi personali. Il così detto “ascensore sociale”: potrò fare un lavoro più soddisfacente, guadagnerò di più, oppure potrò fare un’attività con maggiori ricadute sociali, ecc.
Da un certo punto di vista entrambe queste motivazioni sono entrate in crisi. Che l’“ascensore sociale” si sia bloccato è abbastanza chiaro. La laurea non comporta (più) un reddito maggiore. Si pensi a quanto guadagnano gli insegnanti, forse la categoria più vasta di laureati nel Paese (oltre 900.000 con stipendi netti/mese tra 1.400 e 2.000€). La laurea nemmeno garantisce più un maggiore riconoscimento sociale. I modelli di riferimento del “successo” sono altri.
Una terza ragione per andare all’università potrebbe anche essere la sola passione per lo studio e per la ricerca, magari il sogno di diventare ricercatrice o ricercatore. Ma, nell’ immaginario collettivo lo scienziato non è più lo scopritore o l’inventore o lo studioso. Una complessa e sistematica opera di demolizione della fiducia nella scienza ha sostituito l’immagine dello studioso e del ricercatore con quello del cervello in fuga e/o del precario, comunque sottopagato, e destinato a una vita di incertezza.
Non ci si può quindi sorprendere se i giovani sono meno attratti dallo studio e se le stesse famiglie di provenienza sono meno disposte che in passato a “fare i sacrifici” necessari per mandare i figli a studiare …
Come siamo arrivati a questo?
E’ colpa dei media? E’ colpa di un modello di società ripiegata sulla mediocrità e sulla logica del “furbetto di turno”? E’ colpa di una classe dirigente che non riesce ad andare al di là dell’incasso elettorale a breve? E’ colpa di imprenditori che hanno rinunciato a innovare? Attribuire colpe è uno sport nazionale, che spesso non porta a nulla.
Semmai possiamo chiederci cosa possiamo fare per rilanciare la capacità di attrazione dello studio universitario in Italia. Anche solo per tentare una risposta servono ragionamenti troppo complessi e troppo scomodi per essere sviluppati in poche righe, ma qualcosa si può dire.
In primo luogo, serve investire sulla residenzialità universitaria (che fine ha fatto il censimento avviato dalla Ministra Bernini ?) e non solo per sostenere la mobilità interna, che oggi si scontra con il successo turistico delle nostre città universitarie, ma anche per consentire la presenza di studenti da altri paesi. Gli studenti stranieri incontrano difficoltà ancora maggiori nel trovare alloggio nelle nostre città. Non va dimenticato che la circolazione internazionale è fondamentale per l’università, è nel suo DNA, ma lo è anche per il Paese. L’immigrazione intellettuale può essere uno strumento strategico di mediazione culturale con l’immigrazione meno istruita.
Inoltre, visto che abbiamo un grosso problema di fruizione degli insegnamenti universitari per via dei costi degli alloggi e degli spostamenti, possiamo lavorare sul modello della didattica mista, in presenza e online. Abbiamo tutte/i imparato a usarlo e lo abbiamo riscoperto in occasione della catastrofica alluvione in Romagna. Certo, il sistema misto è – per sua natura – disuguale. Ma è forse egualitario selezionare gli studenti sulla base del fatto che possano permettersi o meno una stanza in affitto? Nelle Università la creatività non manca, si studi il modo per colmare il “divide” generato dalla didattica mista. Le soluzioni fantasiose si trovano, se si riconosce l’importanza di portare i giovani allo studio. L’emergenza sappiamo già come gestirla, impariamo a trasformarla in innovazione. La resilienza si vede anche qui.
Altro intervento emergenziale, con effetto immediato, è quello dell’abbattimento delle tasse universitarie. Tema sul quale ho già scritto (si veda Sole del 4/11/22). Abolire, o ridurre in modo sostanziale, le tasse universitarie è uno strumento potente per favorire l’accesso alla formazione universitaria dei giovani italiani, al di là del censo e della fedeltà fiscale. Sarebbe anche più equo: in un paese che ha una evasione fiscale di 100 miliardi di euro, la probabilità che acceda ai pochi benefici (alloggi, borse di studio ecc.) anche chi non lo merita a scapito di chi le tasse le paga veramente è molto alta.
E comunque, “alla fin della fiera”, la capacità di attrazione dello studio universitario dipende anche, e in modo sostanziale, dalla valorizzazione degli obiettivi raggiunti con la formazione. E il miglior modo per riconoscere l’impegno e il merito, nello studio, nella ricerca, nell’insegnamento e nella missione sociale è, in primis, quello di retribuirli in modo adeguato.
pubblicato sul Sole 24 Ore del 6/9/23 con il titolo “le scelte inderogabili per rendere l’università capace di attrarre i giovani”