Pubblicato sul Sole 24 Ore del 20 dicembre 2023 con il titolo Parametrarsi all’Europa è la chiave di un sistema maturo
L’università di oggi è, ovviamente, molto diversa da quella in cui sono entrato un po’ di anni fa. Si pongono essenzialmente due domande:
1) quali fattori hanno maggiormente contribuito a definire comportamenti e strategie attuali?
2) quali sono le criticità che richiedono attenzione per il futuro?
Parto dalla constatazione che, nel corso dei decenni, lentamente il sistema universitario italiano si è adeguato, almeno nella sua struttura organizzativa (carriere, dipartimenti, percorsi di studio su più livelli, dottorato ecc.) ai maggiori sistemi universitari europei. Questi adeguamenti, anche se opera di diversi governi e di diverse maggioranze, hanno seguito un disegno sostanzialmente coerente. Qui non posso non segnalare una inversione di tendenza: sbagliato abolire gli assegni di ricerca postdoc – la “zona di apprendistato” – tra la fine del dottorato di ricerca e l’ingresso in tenure track che è comune a tutti i sistemi universitari evoluti.
Ma cosa ha inciso di più nella definizione degli obiettivi e delle prassi?
Al primo posto metto l’Europa, o meglio i finanziamenti alla ricerca. I programmi quadro, le azioni COST, i dottorati internazionali, i Cofund, gli Horizon2020 e Horizon Europe, ERC ecc. hanno avuto non solo l’effetto di portare importanti risorse alla ricerca a fronte della scarsità di finanziamenti nazionali, ma anche di orientare gli sforzi dei ricercatori e anche delle amministrazioni, chiamate a dare supporto nella competizione europea. Non meno rilevante è stato il superamento, in una logica di sistema, del gap – non privo di incrostazioni ideologiche – tra ricerca di base e ricerca applicata e industriale con l’avvio di progetti comuni pubblico-privato. L’Europa ha portato anche maggiore mobilità, scambi di studenti, internazionalizzazione dei corsi, insomma una decisa spinta verso la sprovincializzazione e il multilinguismo.
L’altra forte spinta innovativa è venuta dall’adozione della valutazione come prassi. So che non tutti saranno d’accordo ma, pur con tutte le inevitabili contraddizioni, l’introduzione di meccanismi di valutazione del sistema universitario e delle sue strutture, e dei singoli processi – primo tra tutti quello del reclutamento e della promozione – ha rappresentato un altro passaggio evolutivo: competizione tra le strutture per le risorse pubbliche e maggiore trasparenza nelle assunzioni e avanzamenti di carriera. Non che il binomio “concorsi/ricorsi” sia superato, nient’affatto, ma oggi non assistiamo quasi mai a “cooptazioni impresentabili”.
La valutazione è però anche una criticità. Lo stesso uso di indicatori di performance si sta trasformando in “ossessione parametrica”. La loro applicazione non può sostituire la responsabilità palese di chi opera le scelte, vuoi che si tratti di governare gli atenei, vuoi che si tratti di procedure di reclutamento e promozione. Il che si collega al tema burocrazia. Di eccessiva burocrazia parlano tutte e tutti, ma nessuno sembra essere in grado di trasformare le critiche in atti conseguenti. La programmazione, il reclutamento, a partire dal dottorato, l’organizzazione della didattica, per finire alla stessa capacità di spesa dei dipartimenti, sono spesso ostacolate, non facilitate, da procedure intricate, ridondanti e informaticamente “user unfriendly” che assorbono il tempo che andrebbe dedicato alla ricerca e allo studio. A volte si ha l’impressione che una mente estranea ai normali meccanismi di funzionamento e alle priorità dell’università abbia preso il sopravvento. Si pensi al PNRR che indubbiamente sta riversando risorse ingenti nelle nostre università. Possiamo acquistare strumenti, ammodernare strutture e reclutare giovani nei dottorati. E’ quindi paradossale scoprire che – a fronte di risorse abbondanti – il vero problema sia diventato quello di spenderle.
Non dimentico il tema dello scarso numero di giovani che si iscrive all’università e spesso poi abbandona a causa di costi, spazi, alloggi e, quel che è peggio, mancanza di prospettive occupazionali adeguate.
Per quanto riguarda la capacità di generare nuove idee e innovazione, la criticità più importante che vedo è data dalla progressiva separazione tra le discipline. Una sorta di deriva dei continenti. L’università somiglia sempre di più a un arcipelago di isolette disciplinari con pochissimi interscambi. In assenza di strutture di collegamento e di interscambio è diventato quasi impossibile entrare in contatto con conoscenze e saperi “altri”. Giovani ricercatori e ricercatrici “rischiano” di sviluppare la loro carriera interamente in un ambiente monoculturale. Una perdita di trasversalità e di multilinguismo che contrasta con la stessa idea di “universitas” e rallenta la capacità di risposta del nostro Paese alle sfide montanti (un esempio per tutti: l’intelligenza artificiale), con annessi e connessi.